Don't laugh, don't laugh
- Guido Pizzorno
- 30 mar 2019
- Tempo di lettura: 3 min

Chi è questo omone dal volto simpatico rinchiuso in un abito più grande di quanto grande lui stesso sia?
Lo sguardo sornione mi ricorda qualcosa.
Avevo poco più di trent’anni quando, in canotta e pantaloncini rossi, con il 23 sulle spalle, appariva al mondo come “il più grande atleta del XX secolo”.
Aveva già vinto un oro olimpico nell’84 e di lui Larry Bird, uno che di basket ne aveva visto, diceva: “Penso sia semplicemente Dio travestito da Michael Jordan”.
Dal 91 al 93 vince con i Chicago Bulls tre titoli NBA.
Una serie di record di gioco impressionante.
Nel 92 il mondo scopre a Barcellona la squadra assoluta. La nazionale americana di basket, il Dream Team, guidata da Michael, rappresenta da quel momento “ciò che non può essere battuto”.
Inizia l’epoca delle sponsorizzazioni a vita. Il marchio Nike irrompe nelle nostre strade. Nel televisore i bimbi cantano “Be like Mike”.
Poi la tragedia, come spesso accade, pare interrompere il flusso perfetto di una vita a cui tutti noi romantici aspiriamo. Il padre di Michael viene ucciso, forse per rapina o per un tentato rapimento.
E lui abbandona il basket e affronta una nuova sfida. Si mette a giocare a baseball, sport tanto amato dal padre.
Ma anche per Jordan la strada può essere in salita. Dopo due anni la gravità lo riporta a casa.
Così ritorna ai Bulls e … uno, due titoli NBA consecutivi.
Nel 98 arriva ancora una finale, l’ultima, con gli Utah Jazz di Karl Malone. Una partita difficile, i Bulls non sono al massimo. Michael insolitamente qualcosa sbaglia, Dennis Rodman, con i capelli chiazzati di giallo, è falloso e incostante. Scottie Pippen non basta.
A due minuti dalla fine i Jazz prendono un piccolo vantaggio.
John Stockton è un bassetto bianco. Ti chiedi che ci fa in un mondo di colossi neri. Poi ti rispondi: sta lì perché è un campione.
A un minuto Michael si tuffa verso il canestro.
Per fermarlo Stockton si fa travolgere e rimane a terra per qualche secondo.
Ai tiri liberi il campo visivo di Michael è un inferno di gadget bianchi che ondeggiano nella tribuna. Tabellone e canestro neppure si vedono. Ma la palla entra, due volte.
E Stockton che fa? Il tempo di attraversare il campo e, dal basso del suo 1.85, senza esitare, mette dentro una palla da tre punti.
Time out. Nel basket i minuti si dilatano.
Trentotto secondi e Jordan ne mette dentro una.
Ancora la palla ai Jazz. Malone è sotto il canestro ma si guarda attorno. E’ alto 2.06. Da sotto la sua ascella destra compare un braccio, la mano di Michael, alto solo 1.96, gli ruba la palla.
Utah 86 punti, Chicago 85. Mancano 15 secondi alla fine e Michael avanza palleggiando. Attende sino ai 7 secondi poi scatta, con una finta manda a terra Russel e …
... la mette dentro.
Stockton ha ancora due secondi per un altro tiro da tre ma ormai la storia ha preso la sua direzione. La palla colpisce l’anello e esce.
Il tempo per una carezza a un Rodman stravolto e la partita finisce.
Il secondo three-peat, il triplete quando Mourinho era ancora un assistente.
Michael Jordan lancia le mani al cielo, cinque dita a sin, uno a destra. Sei titoli. Ora può smettere.
Oggi l’uomo delle sfide è appesantito proprietario e presidente di una squadra minore, sponsor del Paris Saint Germain e, ovviamente, ricchissimo uomo d’affari.
In campo, nel frattempo, nuove incredibili storie di campioni. Un certo LeBron insidia il suo mito.
Nella foto Mike è ritratto durante il suo discorso alla Naismith Memorial Basketball Hall of Fame nel 2009.
Mi piace ricordare le ultime parole che tutti noi, sportivi sul viale del tramonto, dovremmo pronunciare.
One day you might look up and see me playing the game at 50.
Don’t laugh, don’t laugh.
Never say never, because limits, like fears, are often just an illusion.



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